L'eterno ritorno è un caposaldo della filosofia di Friedrich Nietzsche. Esso è stato anticipato nella concezione ciclica del tempo proposta dagli stoici. Vattimo ha proposto una lettura dell'eterno ritorno Nietzschiano in relazione al concetto d'oltre-anima emersoniana: "Ciò che Nietzsche chiamava (senza tanto spiegarlo) eterno ritorno dell'uguale, si può ben leggere come la fede emersoniana nella «grande anima» (o «superanima»), l'idea cioè che ogni individuo porti in sé, e metta in gioco nelle sue decisioni imprevedibili, il tutto dell'essere."
Il ragionamento che sta dietro al semplice - ma spesso incompreso concetto di Nietzsche - è il seguente:
In un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte.
Ad esempio, tirando infinite volte tre dadi a sei facce, ognuna delle 216 combinazioni potrà comparire infinite volte.
Nel caso specifico del discorso esistenziale, Nietzsche fa notare che (essendo le "cose del mondo" di numero finito, e il tempo infinito) anche nella vita umana questo concetto è applicabile: ogni evento che possiamo vivere, l'abbiamo già vissuto infinite volte nel passato, e lo vivremo infinite volte nel futuro. La nostra stessa vita è già accaduta, ed ogni attimo di essa e, in questo modo, perde ogni importanza. In Così parlò Zarathustra Nietzsche mostra come il comprendere questo punto sia fondamentale nella perdita dei valori antecedente al Superuomo.
Secondo una differente prospettiva, la quale può portare a comprendere le note attenzioni freudiane verso Friedrich Nietzsche, l'eterno ritorno dell'uguale può essere interpretato - in una chiave di lettura più vicina alla psicologia e al concetto di "tempo" novecentesco (inteso qui come tempo dell'anima, come "durata" Bergsoniana) - come una trappola statica (vedi Dublino in Joyce) alla quale è sottoposto il destino umano, che nella sua dinamica apparente tra passato, presente e futuro, è necessariamente immobilizzato dalle "scorie indigeste" della propria ombra temporale, dal proprio substrato psichico, che rallenta o impedisce ogni progresso della volontà di potenza e, conseguenzialmente, della vita stessa.
E' proprio questo passato che, rielaborato dalla mente del singolo prima, e quindi dalle grandi masse dei processi storici e culturali, si traduce in "ragione apollinea" (il Super Io freudiano), andando ad inibire progressivamente e a cancellare l'"istinto dionisiaco" proprio dell'era presocratica (ed anche preplatonica e precristiana). Tagliare - per sempre - col passato equivale, quindi, a rompere il circolo perpetuo che vizia il destino dell'uomo; rompere il cerchio dell'eterno ritorno significa, quindi, guadagnarsi la via di accesso ad un nuovo tempo rettilineo, proiettato verso l'infinito e infinitamente diverso da sé. Eliminare l'ombra di pietra che l'uomo si trascina appresso dai tempi di Socrate equivale, quindi, ad una redenzione esistenziale che non può che trovare nel "Superuomo" e nella "Volontà di Potenza" la sua risoluzione totalizzante e totalitaria. Risoluzione che vede solo negli eletti del futuro, nelle nuove generazioni liberate dai profeti di oggi e di domani, svincolate dalla tradizione e dal passato, la possibilità di salvezza per il genere umano.
L’angoscioso tema dell’eterno ritorno (“il peso più grande”) risuona quasi come un assillo nella mente del filosofo, il quale vuole trasmetterlo a partire dall’inquietante e quanto mai realistico interrogativo costituente uno dei passi più belli ed interessanti de La gaia scienza:
«Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione [...]. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!»
Nonostante le innumerevoli difficoltà d’interpretazione che questo tema cela in sé, il messaggio di Nietzsche sembra essere abbastanza chiaro. Esso dà infatti all’uomo comune (e non al superuomo) uno spiraglio di speranza, lo esorta ad accettare attivamente e a vivere appassionatamente ogni attimo della sua esistenza e lo aiuta a conferire alla vita un senso forse oramai da troppo tempo dimenticato. La vita, in fin dei conti, è una sola e la provocazione di Nietzsche non sta a significare altro che essa, in quanto tale, deve essere vissuta realmente come esperienza unica della quale non saremo mai più resi partecipi, e quindi come se non dovesse mai più ritornare. All’uomo moderno privo di certezze assolute egli propone quindi l’amor fati ("amore per il proprio destino"), formula e imperativo che non esprime altro se non l’accettazione dionisiaca della vita e dell’eterno ritorno.
(da Wikipedia)
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